Le SPAC: cosa sono e come funzionano

Iniziamo subito con il definire cosa non è una Spac.

Questo acronimo non fa riferimento ad un nuovo tipo sociale in quanto chiaramente imodelli di società possibili nel nostro ordinamento sono tipici.

La SPAC è la definizione abbreviata di quella che si può definire una società di scopoed infatti significa "Special Purpose Acquisition Company".

Questa "formula" viene definita da Borsa Italiana come società veicoli diinvestimento, società dotata di capitali di investimento che naturalmente persegue loscopo di asservire la propria ricchezza liquida, attraverso un programma, avente un progetto imprenditoriale di una società target, che sia potenzialmente idoneo adevolvere ed a performare in una remunerativa crescita a vantaggio dei soci originarie degli investitori del mercato.

Comprendere la funzione di questo "veicolo" non è facile e bisogna guardare alle realtà dove essa è più sviluppata per comprenderne il funzionamento.

La sua origine è americana in cui il "terreno" è sicuramente più fertile e foriero per ilnascere di alcune "novità".Intorno agli anni 2002/2003, si registrò un intensificarsi del ricorso a questo modelloper un duplice ordine di ragione: da un lato la scarsa remunerazione che producevanoi prodotti di investimento tradizionali e dall'altro la crescita di fondi di PrivateEquity, hanno fatto sì che questo fenomeno si sviluppasse in misura crescente.Questo fenomeno quindi deve essere osservato sotto un triplice profilo: unoeconomico, uno giuridico ed una finanziario in quanto sono intrecciati tra loro vistoche che realizzano

(i) la raccolta di capitali presso il pubblico, mediante un'offertapubblica di sottoscrizione ("initial public offering" o "IPO"); e

(ii) l'investimento inuna società operativa e quotata in Borsa.

In Italia, grazie al fatto che ci sono molte norme a tutela di fenomeni distorsivi delmercato, il fenomeno si è palesato solo nel 2010 tramite la "ri-conoscenza" da partedi un regolamento di Borsa italiana con il quale si è razionalizzata e disciplinatol'accesso di nuovi veicoli di investimento nei mercati di quotazione.Consob, nella delibera del 4 Maggio 2010, ha fatto divenire possibile presentaredomande di ammissione per veicoli di investimento non diversificato nei quali vienefatto rientrate il modello SPAC.Alcuni autori ha messo in parallelo le PMI "italiane" con la figura della Spac.Le piccole e medie imprese italiane, che sono state oggetto di una particolarenormativa di favore proprio per garantirne una migliore efficienza e sviluppo, hanno in generale bisogno di accesso al credito e quindi a meccanismi di finanziamento.

Tali forme di finanziamento possono essere le più diverse anche se sempredisciplinate: possono ricorrere a finanziamento soci, ad operazioni di leverage buyout, ad emissioni di prestito obbligazionario oppure ad operazioni di finanziamentoda parte di istituti bancari che però denotano una scarsa propensione a strategie direinvestimento.Oggi si potrebbe inserire anche la possibilità di ricorrere alla SPAC per reperire lerisorse finanziarie e ricorrere ad un sistema di investimento.

La spac però consente dimutare la prospettiva.

Recentemente, e solo in relazione alle start up innovative, si è fatto riferimento allapossibilità di accedere al crowd-founding che può in parte mimare il fenomenoSPAC.La spac consente di accedere ad un meccanismo di equity che consente di traghettarele società verso la quotazione in borsa al fine di reperire capitale.

Quanto delineato è sicuramente un'operazione complessa che necessita diapprofondimento e consapevolezza del fenomeno e ne è un indice il fatto che in italiane abbiano fatto ricorso solo 31.

Gli step da affrontare sono questi:1 Costituzione della SPAC da parte dei promotori e sponsor che effettuanoun aumento di capitale2 IPO offerta iniziale con assegnazione di Azione e warrant3 Individuazione di una società target da acquisire4 Business combination, oppure liquidazione della SPAC entro 12/24 mesiLa SPAC è inizialmente finanziata da promotori, finanziatori che sostengono i costidella offerta pubblica iniziale (IPO).

L'IPO iniziale prevede che i sottoscrittori ricevano una o due azioni e un warrant chepossono essere ceduti separatamente. Con il warrant il proprietario ha il diritto diavere azioni ordinarie della SPAC a un prezzo pari al 75% del valore di collocamentoe si può esercitare quando la business combination è stata del tutto completata

Le SPAC hanno profilo di rischio molto basso, per un tempo limitato, ma possibilitàdi guadagno anche molto elevate se l'operazione giunge a conclusione.Infatti la SPAC prevede che chi investe ma non è d'accordo sulla operazione possaritirarsi recuperando gran parte del capitale versato. Inoltre la remunerazione deipromotori/amministratori arriva solo alla fine, dopo l'approvazione della businesscombination e si concretizza con delle azioni della SPAC.La SPAC prevede una società-veicolo che quotandosi, raccoglie i capitali peracquisire una PMI. Una sola impresa.

Una volta completata l'acquisizione, la PMI,società-bersaglio, viene fusa con il veicolo e si trova quotata in Borsa Italiana. Lafusione, aggregazione (cosiddetta business combination) con la societa target si deverealizzare in un breve arco temporale (di solito di 24 mesi) e, al termine del processo,la società prescelta viene fusa con la SPAC e portata in Borsa Italiana

.Oltre alla fusione diretta come sopra esaminata, possono avvenire in altre modi lebusiness combination: attraverso cessioni quote o fusione parti inverse rispetto aquanto sopra prospettato.

Per tutto quanto sopra detto, la SPAC va analizzata e, se compresa, può rappresentare un'opportunità per tante realtà imprenditoriali, che potrebbe portare ad un cambio divisione e di consapevolezza dell'imprenditore italiano, tanto da farlo ritornare adessere capitano della propria azienda, in una mentalità win-win.

di Margherita Caccetta, Notaio

Il contratto per sé o per persona da nominare

di Margherita Caccetta

Molto spesso, Quando si stipula un contratto preliminare, si trova inserita o viene consigliato di inserirla la clausola contrattuale "per sé o per persona da nominare".

Vediamo di cosa si tratta.

Il contratto da persona da nominare è quel contratto con cui una parte (lo stipulante) si riserva il potere di nominare, entro il termine legale (tre giorni) o il diverso termine pattiziamente stabilito, un'altra persona come parte sostanziale del contratto (Articolo 1402 c.c.): si riserva, cioè, di nominare chi deve acquistare i diritti ed assumere gli obblighi nascenti dal contratto.

La riserva di nomina genera quindi una parziale indeterminatezza soggettiva del contratto: il rapporto, infatti, viene ad esistere tra le parti originarie (stipulante e promittente), ma è previsto, in alternativa, che il contratto faccia capo ad un terzo. Infatti, l'atto di nomina determina una situazione per cui il nominato entra nel contratto come parte sostanziale in aggiunta o in sostituzione dello stipulante, acquistando retroattivamente i diritti e gli obblighi. Se il termine scade senza che alla controparte venga comunicata la nomina, il contratto si consolida in capo allo stipulante.

La dottrina preferibile ravvisa in tale fattispecie contrattuale un'ipotesi di rappresentanza eventuale in incerta personam.

La nomina è un negozio giuridico unilaterale e recettizio, col quale lo stipulante imputa il rapporto contrattuale al terzo nominato con effetto retroattivo. Dall'art. 1402 secondo comma si ricava che la nomina è efficace se lo stipulante è legittimato ad imputare al terzo il rapporto contrattuale: la legittimazione sussiste solo se lo stipulante ha la rappresentanza del terzo, che a tal fine deve aver conferito procura. In difetto di rappresentanza la nomina è inefficace, a meno che non venga accettata dal terzo. L'accettazione è considerata ratifica e deve intervenire entro il termine stabilito per la nomina, altrimenti il contratto si consolida in capo allo stipulante.

La nomina va fatta, a pena di nullità, con la stessa forma usata per il contratto tra stipulante e promittente (Forma per relationem), ed è soggetta alla stessa pubblicità richiesta per il contratto cui inerisce. Quindi, se il contratto è sottoposto a trascrizione, andrà trascritta anche la nomina: la nomina trascritta dopo la scadenza del termine è inopponibile al terzo acquirente dallo stipulante che abbia trascritto in precedenza il suo acquisto.

Come visto, la nomina è un negozio unilaterale e recettizio: va infatti comunicata al promittente entro tre giorni dalla stipula. Si può pattiziamente prevedere un termine più lungo, ma quando la nomina è comunque fatta oltre il terzo giorno, si considera come se lo stipulante avesse acquistato il bene in proprio e poi lo avesse alienato a terzi (a fini fiscali si avrà dunque un doppio passaggio di proprietà).

Dopo la nomina, il terzo diventa parte in senso sostanziale a partire dalla stipula.

Il rapporto stipulante-terzo può avere varie fonti: un mandato o altro rapporto il cui lo stipulante usa un affare concluso nel suo interesse. Dato che la nomina ha effetto retroattivo, l'acquisto del nominato prevale sugli atti esecutivi dei creditori dello stipulante se la riserva di nomina è stata resa opponibile.

In relazione alla trascrizione non c'è unanimità di opinioni.

Essa dovrà essere effettuata immediatamente a favore dello stipulans acquirente e contro il promettente alienante, con annotazione a margine della trascrizione del contratto in cui essa è contenuta ex art. 2659 c.c.

La dottrina prevalente sostiene la sua trascrizione, affinché la riserva sia opponibile agli aventi causa e ai creditori dello stipulante che abbiano ulteriormente reso opponibile il loro acquisto o compiuto atti di esecuzione.

Per la tesi minoritaria non è necessaria, anzi è stato affermato che non sarebbe possibile menzionare la riserva di nomina nella trascrizione a favore dello stipulante, non essendo tale menzione prevista dalla legge e non potendo desumersene la possibilità dalla previsione normativa relativa alla clausola condizionale, che ha natura ben diversa (in quanto la nomina non elimina radicalmente l'efficacia del contratto trascritto ma la modifica soltanto sostituendo l'acquirente).

Sul punto di recente è intervenuta la Cassazione affermando che "affinché, in un contratto per persona da nominare, il c.d. "electus" possa godere degli effetti prenotativi del preliminare – anche quanto alle ipoteche iscritte contro il promittente alienante tra la trascrizione del preliminare suddetto e del contratto definitivo – è necessario, ma sufficiente, che la dichiarazione di nomina sia trascritta entro il termine stabilito nel preliminare, e comunque, entro quello ex art. 2645-bis, comma 3, c.c., non occorrendo, altresì, che la riserva di nomina risulti dalla nota di trascrizione del preliminare."

Pertanto, la clausola in oggetto non rende mai instabile l'acquisto e quindi il venditore è sempre tutelato e non vede "pregiudicato" il suo interesse alla vendita e l'acquirente ha la "facoltà" di riservarsi il diritto di nominare un altro soggetto a cui faranno capo tutti i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto medesimo.

Al fine di evitare di pagare nuovamente le imposte sulla vendita la riserva va sciolta entro tre giorni altrimenti l'agenzia delle entrate tasserà questa nomina come una nuova compravendita.

Il termine dei tre giorni vale per un acquisto definitivo e non per il contratto preliminare. Nel preliminare tale clausola non comporta oneri di spesa aggiuntivi e la nomina può essere effettuata in sede di definitivo.

Niente toglie la possibilità di lasciare ancora la clausola nel definitivo e sciogliere la riserva entro tre giorni dallo stesso.

Qualora si siano versati degli acconti, in sede di preliminare, sorge la questione di come questi verranno regolati e qui la panoramica è ampia e mero frutto di accordi contrattuali tra le parti non essendoci alcuna preclusione legislativa.

Quindi, può accadere che la caparra già versata resti al venditore e poi il relativo ulteriore pagamento del prezzo sarà a capo del nominato il quale rimborserà la somma già versata al vecchio acquirente così come può accedere che invece la caparra venga restituita al vecchio acquirente e l'intero prezzo venga pagato ex novo dal nuovo nominato acquirente.

La cessione del credito a scopo di garanzia

di Margherita Caccetta

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 28 maggio 2020, n. 10092 In caso di cessione del credito effettuata non in funzione solutoria, ex art. 1198 cod. civ., ma esclusivamente a scopo di garanzia di una diversa obbligazione dello stesso cedente, il cessionario è legittimato ad agire sia nei confronti del debitore ceduto che nei confronti delloriginario debitore cedente senza essere gravato, in questultimo caso, dallonere di provare linfruttuosa escussione del debitore ceduto

 

Sommario:

1) La cessione del credito: nozione e quadro generale.

2) La cessione del credito a scopo di garanzia e la differenza dalla cessione del credito in solutum.

3) Fatti di causa.

4) Conclusioni.

 

  • La cessione del credito: nozione e quadro generale.

La cessione del credito è disciplinata dall’articolo 1260 e seguenti del codice civile e viene annoverata tra le modificazioni dal lato attivo del rapporto obbligatorio.

Come tale, essa si perfeziona con il consenso tra cedente e cessionario, a nulla dunque rilevando il rapporto con il debitore.

Nelle modificazioni del rapporto obbligatorio dal lato passivo, la persona del debitore incide sul consenso che deve rilasciare il creditore per il perfezionamento della fattispecie poiché per quest’ultimo non sarà indifferente relazionarsi con un debitore piuttosto che con un altro.

Dal lato attivo del rapporto obbligatorio invece, al debitore non rileva la persona del creditore e, pertanto, il contratto si perfeziona senza il suo consenso.

Il codice civile impone all’articolo 1264 del codice civile che, ai fini dell’efficacia nei suoi confronti, il debitore sia presente all’atto o gli venga notificata la cessione.

In ogni caso, il legislatore prevede che, anche prima della notifica il debitore non sia liberato, se il cessionario prova che il debitore medesimo fosse a conoscenza dell’avvenuta cessione.

Dal punto di vista della causa, la cessione del credito viene definita dalla dottrina unanime[1] una negozio a causa variabile in quanto esso prende la causa del negozio sottostante (Causa di vendita, di permuta, di donazione etc..).

Anche la giurisprudenza[2] sostiene tale orientamento non avallando dunque la tesi per cui nella cessione del credito si avrebbe un’astrazione della causa (relativa e non assoluta).

La composita causa della cessione sarebbe quindi, la risultante della fusione tra un elemento generico e costante, consistente nella tutela all’interesse nondimeno generico al trasferimento, consolidato nella disciplina degli articoli 1260 ss. del codice civile, ed un elemento specifico e variabile, costituito invece dal tipo negoziale volta a volta prescelto per realizzare, integrandola, la cessione.

 

All’interno della figura negoziale della cessione del credito si distingue tra cessione del credito pro soluto e pro solvendo.

In assenza di diversa previsione contrattuale, la cessione si qualifica come pro soluto; ai sensi dell’articolo 1267 del codice civile infatti “il cedente risponde della solvenza del debitore, salvo che ne abbia assunto la garanzia.

Nel caso di cessione pro soluto, il cedente, una volta trasferito il credito, non risponde del pagamento del debitore nel confronti del cessionario.

Diversamente per il caso in cui venga pattuita la cessione del credito pro solvendo; in questo caso, sempre l’articolo 1267 del codice civile ci fornisce la risposta: il cedente risponderà della solvenza  pur sempre nei limiti di quanto ricevuto.

Ogni patto diretto ad aggravare la responsabilità del cedente è nullo e la stessa responsabilità viene meno se l’insolvenza è dipesa da negligenza del cessionario nell’iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore stesso.

In caso di cessione a titolo gratuito la garanzia è dovuta solo nei casi in cui la legge la pone a carico del donante.

 

 

2) La cessione del credito a scopo di garanzia e la differenza dalla cessione del credito in solutum.

 

Un’ipotesi specifica di cessione del credito è prevista dall’articolo 1198 del codice civile, trattasi della prestazione in luogo dell’adempimento, ossia di una forma estintiva satisfattiva della prestazione originaria, anche detta datio in solutum.

Quando, in luogo dell'adempimento, è ceduto un credito, l'obbligazione si estingue con la riscossione del credito. Si applicano le regole della cessione pro solvendo ex articolo 1267, secondo comma del codice civile), ossia il cedente deve garantire la solvenza del debitore; egli è liberato soltanto se la mancata realizzazione del credito per insolvenza del debitore è dipesa da negligenza del cessionario nell'iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore stesso.

Senza analizzare qui come si rende compatibile la datio in solutum, ex articolo 1197 del codice civile, con uno schema contrattuale basato sul consenso contrattuale, l’art. 1198 c.c. individua la cessione solutoria, ossia la cessione che avviene con lo scopo di estinguere un debito del cedente verso il cessionario.

Tale cessione si presume pro solvendo, ossia il cedente non è liberato finché il creditore cessionario non ottiene la prestazione.

 

Proprio in virtù della sua causa variabile, nella prassi contrattuale, la cessione del credito è stata anche “utilizzata” in funzione di garanzia.

Lo schema negoziale prevede che il cedente, a garanzia di un suo rapporto debitorio, ceda al suo creditore, un suo creditore nei confronti di un suo debitore.

Diversamente dalla cessione solutoria di cui sopra, la cessione a scopo di garanzia, non persegue lo scopo di soddisfare il debitore del cedente verso il cessionario, ma quello di garantire la propria esposizione debitoria nei confronti del cessionario.

Si tratta di un istituto autonomo, che non serve ad estinguere l’obbligazione originaria ma a rafforzarla.

Preme precisare che l’articolo 1198, seconda comma del codice civile, rinvia all’articolo 1267, seconda comma del codice civile, ove si fa riferimento al fatto che il cedente abbia garantito la solvenza del debitore.

Dunque, la garanzia a cui si fa cenno è ben diversa dallo “scopo di garanzia”. Infatti la cessio pro solvendo consiste nel garantire la solvenza del debitore ceduto ed è diversa dalla cessio in securitatem che attiene alla cessione del credito con funzione di garanzia.

 

Nella cessione con funzione di garanzia, invece, il trasferimento del credito al cessionario è destinato solo in via sussidiaria ed eventuale a realizzare l'obbligazione principale, mediante l'escussione del debito ceduto oggetto della garanzia.

Nella cessione a scopo di garanzia, la riscossione del debito ceduto si trova su un piano subordinato rispetto a quanto accade con la cessione solutoria. Infatti, la garanzia ha natura accessoria; qualora si verifichi l'estinzione dell'obbligazione garantita (originaria), il credito ceduto a scopo di garanzia, nella stessa quantità, si ritrasferisce automaticamente nella sfera giuridica del cedente (con un meccanismo analogo a quello della condizione risolutiva)[3].

3) Fatti di causa.

Una banca proponeva opposizione avverso la decisione del giudice delegato che ammetteva solo parzialmente il credito insinuato al passivo del fallimento di una s.r.l. Tale credito derivava da un contratto di anticipazione su fatture contro cessione di credito pro solvendo e la banca, secondo il Tribunale, non aveva dimostrato di aver tentato infruttuosamente l’escussione dei debitori ceduti. Secondo il collegio, la cessione a scopo di garanzia non escludeva l’onere della banca cessionaria di escutere il debitore ceduto, prima di agire verso il cedente. L’istituto bancario contesta tale ricostruzione e la Cassazione deve decidere se, in caso di cessio in securitatem, sul cessionario (nella fattispecie in esame, la banca) gravi (o meno) l’onere di provare la previa escussione del debitore ceduto.

Viene richiamata dal Tribunale la pronuncia di Cassazione numero 3469/2007, in cui in merito alla cessione di credito in luogo dell’adempimento, ex articolo 1198 del codice civile, statuisce che «grava sul cessionario che agisce nei confronti del cedente dare la prova dellesigibilità del credito e dellinsolvenza del debitore ceduto, che vi è, cioè, stata escussione infruttuosa di questultimo, e che la mancata realizzazione del credito per totale o parziale insolvenza del debitore ceduto non è dipesa da sua negligenza nelliniziare o proseguire le istanze contro il debitore ceduto, essendo egli tenuto ad un comportamento volto alla tutela del credito ceduto, anche mediante richiesta di provvedimenti cautelari e conservativi, non potendo considerarsi il medesimo non diligente solamente in caso di estinzione non satisfattiva del credito ceduto o di perdita delazione, ma anche in ipotesi di insolvenza del debitore ceduto» e che inoltre, «finché non è esigibile il credito ceduto pro solvendo, tale non è nemmeno il credito originario, mentre quando questultimo diviene esigibile, non per ciò stesso lo diviene anche il credito originario, atteso lonere della preventiva escussione (da parte del cessionario) del debitore ceduto, stante il rinvio operato dallart. 1198, comma 2, cod. civ.»

La Corte di Cassazione, invece ritiene di dover accogliere il ricorso e riformare il principio di diritto a cui si rifaceva il tribunale in quanto la causa che sottosta alla cessione del credito a scopo di garanzia è diversa dalla causa solutoria di cui all’articolo 1198 del codice civile.

Nella cessione con funzione di garanzia, infatti, il trasferimento del credito al cessionario è destinato solo in via sussidiaria ed eventuale a realizzare l’obbligazione principale, mediante l’escussione del debito ceduto oggetto della garanzia.

Sul punto la dottrina ha messo in evidenza alcune analogie esistenti tanto con la riscossione del credito pignoratizio ex art. 2803 cod. civ., quanto con i contratti “di cessione del credito.

La Suprema Corte ha evidenziato come sia proprio la natura accessoria della garanzia a collocare la riscossione del debito ceduto su un piano “subordinato” – o comunque diverso dalla cessione solutoria – rispetto alla riscossione del credito originario garantito.

Nella cessione di crediti in garanzia dovrebbe ravvisarsi una cessione risolutivamente condizionata all’adempimento da parte del cedente; alcuni autori tra l’altro ritengono che la condizione non debba essere enunciata poiché sarebbe sufficiente la mera enunciazione della causa cavendi.

Piu` precisamente, dopo la cessione e nel caso di adempimento di questi, il credito rientrerebbe in via automatica nel patrimonio del cedente; nel caso di inadempimento, il cessionario-creditore acquisterebbe definitivamente il diritto verso il ceduto e, a pagamento avvenuto, dovrebbe restituire il supero al cedente medesimo. Tale ultima conseguenza discenderebbe, dall’applicazione analogica, dell’articolo 2803 del codice civile.

4) Conclusioni.

 

Si comprende, quindi, come tale sentenza vada analizzata sotto il profilo temporale dell’escussione del credito ceduto in garanzia.

Proprio la natura accessoria della garanzia colloca la riscossione del debito ceduto su un piano “subordinato”, rispetto alla riscossione del credito originario garantito

Inoltre, poiché gli articoli 1260 e seguenti del codice civile, non individuano uno specifico tipo contrattuale (potendo il credito essere trasferito a titolo di vendita, donazione, conferimento societario, datio in solutum, garanzia o altro), ma si limitano a regolare gli effetti del trasferimento del diritto di credito, la disciplina del singolo negozio di cessione di credito va ricostruita sulla base dello scopo perseguito dalle parti, applicando le norme suddette – in uno alle disposizioni, codicistiche o pattizie, che regolano il rapporto contrattuale di riferimento, tipico o atipico – alla luce della concreta funzione economico-sociale del negozio.

La Suprema Corte, incentra tutta la motivazione sulla distinzione, sopra analizzata tra ratio  e schema contrattuale della cessio in solutum e della cessio in securitatem.

In quest’ultima ipotesi, infatti, il creditore non dovrà provare l’infruttuosa escussione in quanto il credito a lui è già stato ceduto risolutivamente condizionato all’adempimento.

Pertanto, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, il credito verrà da lui definitivamente incamerato salvo il disposto di cui all’articolo 2803 del codice civile.

La Corte di Cassazione, dunque, in seguito ad un articolato iter argomentativo, cassa la sentenza impugnata e rinvia al giudice di merito che, nella decisione, si dovrà attenersi al seguente principio di diritto:

«In caso di cessione del credito effettuata non in funzione solutoria, ex art. 1198 c.c., ma esclusivamente a scopo di garanzia di una diversa obbligazione dello stesso cedente, il cessionario è legittimato ad agire sia nei confronti del debitore ceduto che nei confronti dell'originario debitore cedente senza essere gravato, in quest'ultimo caso, dall'onere di provare l'infruttuosa escussione del debitore ceduto».[4]

 

[1] ex multis: ; Perlingieri, Della cessione dei crediti (artt. 1260-1267), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma,1982;

[2] Tribunale di Catania, 12.1.2000, in Dir. fall., 2003, 2 ss., si parla di “un negozio avente uno

schema incompleto che va integrato, per operare giuridicamente, con il sottostante contratto, a titolo oneroso o gratuito, che ne sta a base e che ne rappresenta la causa.”

[3] Cass. numero 4796/2001, secondo cui: La titolarità del credito viene trasferita in capo al cessionario, tale cessione è sottoposta a condizione risolutiva, l'evento dedotto in condizione è l'adempimento del debito principale garantito,è sottoposto a condizione sospensiva il dovere del cessionario di restituire l'eccedenza di quanto eventualmente riscosso dal debitore ceduto.

[4] Innumerevoli sono, del resto, i precedenti di questa Corte nei quali - per lo più in tema di revocatoria fallimentare e in concomitanza di operazioni di finanziamento - è stato appunto evidenziato come la cessione di credito sia un negozio a causa variabile, potendo essere stipulata anche a fine di garanzia, oltre che di pagamento, sicché l'effettiva funzione solutoria della cessione pro solvendo di un credito va accertata in concreto, in base al contesto oggettivo e soggettivo della cessione stessa, piuttosto che del successivo pagamento del credito ceduto (Cass. 23261/2014, 12736/2011, 17683/2009, 1617/2009, 17590/2005, 15955/2005), sottolineandosi altresì che, nella cessione pro solvendo di un credito in luogo di adempimento, l'estinzione dell'obbligazione originaria si verifica solo con la riscossione del credito verso il debitore ceduto (Cass. 9141/2007)».

Massima del consiglio notarile di Milano numero 186 - Commento

Sono legittime le clausole statutarie di s.p.a. o di s.r.l. che prevedono l'obbligo, in caso di futuri aumenti di capitale sociale a pagamento, con o senza diritto di opzione, di assegnare gratuitamente un determinato numero di azioni o quote di nuova emissione a favore dei titolari di una categoria di azioni o quote (o a favore di uno o più singoli soci di s.r.l.), allorché detti aumenti di capitale siano deliberati a un prezzo inferiore all'importo stabilito dalla clausola stessa, al fine di evitare la diluizione del valore delle azioni o quote della categoria protetta anche qualora i relativi titolari non partecipassero ai nuovi aumenti.

 Resta ferma la necessità, come in ogni caso di assegnazione non proporzionale delle azioni o delle quote ai sensi degli artt. 2346, comma 4, e 2468, comma 2, c.c., che l'ammontare totale dei conferimenti effettuati dai sottoscrittori diversi dai titolari della categoria protetta sia almeno pari all'ammontare dell'aumento di capitale effettivamente sottoscritto.

 Il diritto di vedersi assegnato gratuitamente un numero di azioni o quote di nuova emissione, di compendio del nuovo aumento di capitale, senza effettuare nuovi conferi- menti, per un ammontare tale da conseguire l'effetto anti-diluitivo, può costituire un "diritto diverso" che connota una categoria di azioni o di quote ai sensi degli artt. 2348 c.c. o 26, comma 2, d.l. 179/2012 (o che si aggiunge ad altri diritti diversi della categoria "protetta") oppure un "diritto particolare" ai sensi dell'art. 2468, comma 3, c.c.

Il Commento

di Margherita Caccetta

Notaio

Prima di procedere con l’analisi della massima in commento, si rende necessario una premessa prodromica alla spiegazione di quanto in seguito.

Nel nostro ordinamento, l’articolo 2441 c.c. e 2442 c.c. in tema di spa e i correlativi in tema di srl, in tema di aumento del capitale sociale oneroso e gratuito, stabiliscono il principio della proporzionalità, precipuamente richiamato dall’articolo 2346 del codice civile.

Ogni socio infatti, ha diritto a sottoscrivere ed ha diritto a che gli vengano assegnate partecipazioni in proporzione alla quota di capitale sociale dal medesimo sottoscritta al momento del suo ingresso in società.

Il principio di proporzionalità è funzionale al mantenimento di “quell’equilibrio sociale” che viene “sancito” all’atto costitutivo o al successivo subingresso del socio in società.

Sulla base di questo, vengono conseguentemente modulati i diritti amministrativi e patrimoniali del socio medesimo all’interno della compagine sociale.

In dottrina, si discute (rectius: si è discusso) circa la possibilità di derogare al principio di proporzionalità prevedendo clausole statutarie che consentissero di attribuire il diritto di opzione o attribuire le partecipazioni ex art.2442 c.c., in modo non proporzionale rispetto ai conferimenti.

Bisogna premettere che la possibilità di assegnazioni non proporzionali incontra un limite preciso nel comma 5 art. 2346 secondo cui in nessun caso il valore dei conferimenti può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del capitale sociale. Si ritiene inoltre che il principio di parità di trattamento tra i soci e il divieto del patto leonino siano principi generali applicabili anche a questa fattispecie.

Prima di andare ad esaminare le varie teorie e ricostruzioni proposte dalla dottrina, occorre precisare che:

-               per  conferimento si intende la prestazioni eseguita o promessa dal sottoscrittore in sede di costituzione della società o aumento del capitale;

-          Sottoscrittore invece è colui che si obbliga a liberare le azioni che rappresentano quella frazione di capitale, eseguendo il relativo conferimento. Mentre prima della Riforma del 2003 esisteva una corrispondenza tra sottoscrizione, conferimento ed assegnazione, così che il n. di azioni che ci si obbligava a liberare era necessariamente lo stesso n. di azioni che venivano assegnate al socio, oggi con la possibilità di conferimenti non proporzionali non esiste più uesta precisa corrispondenza

Parte della dottrina, si è mostrata contraria a tale orientamento possibilista in quanto riteneva che la proporzionalità fosse connaturale al sistema societario nel suo complesso.

Altra parte della dottrina, invece, ha ritenuto che ciò fosse possibile e questo per due ordini di ragioni: il primo, poiché non è vietato espressamente dal legislatore; il secondo poiché si tratta di una vicenda che riguarda pur sempre rapporti interni tra soci, non essendovi dunque alcun interesse di soggetti terzi da proteggere.

Si ritiene infatti possibile che l’assegnazione delle azioni non trovi diretta giustificazione causale in un non proporzionale conferimento di beni, ma in una causa esterna al contratto sociale ad esempio a titolo solutorio a titolo di liberalità.

Con la riforma del 2003 dunque, si è fatta strada la possibilità di scindere l’assunzione dell’obbligo di conferimento nei confronti della società dall’atto di assegnazione delle azioni. 

Le figure più discusse erano poi quelle estreme del socio non conferente e del conferente non socio. Tali figure “limite” non trovano (o meglio, non trovavano) un pacifico accoglimento in dottrina e ciò perché la dottrina pone come forte ostacolo l’articolo 2247 del codice civile secondo cui i conferimenti sono inscindibilmente connessi alla partecipazione societaria. Pertanto, i sostenitori della teoria negativa, sostengono che per acquistare la qualità di soci si debba quanto meno effettuare un seppur minimo conferimento in società.

Tuttavia parte della dottrina ritiene che tale operazione sia possibile, né ricada nel divieto di cui all’art. 2265 in quanto questa norma è stata dettata per un corretto esercizio del potere di gestione del socio dal momento che il socio che non potrebbe subire perdite sarebbe più indotto ad intraprendere operazioni rischiose. Se questa è la ratio della norma, non sarebbe vietato ex se l’acquisto gratuito (senza alcun onere) della partecipazione; il divieto sarebbe violato se determinate azioni sono escluse dagli utili o dalle perdite, a prescindere quindi dal modo in cui sono state sottoscritte dal socio.

Chi ammette pertanto la possibilità di soci, che nulla abbiano conferito in società, ammette anche la costituzione di una società in cui, pur venendo assegnate azioni a più soci, l’obbligo di liberare l’intero capitale gravi solo su di uno di essi.

Il problema nasce dalla circostanza che, seppure l’aumento oneroso presenta forti analogie con la disciplina della costituzione della società, l’art. 2346 comma 4 non viene mai richiamato in tema di aumento a pagamento.

Bisogna tuttavia rispettare alcuni accorgimenti. L’art. 2346 comma 4 prevede infatti che lo Statuto preveda la possibilità di conferimenti non proporzionali; ove questa circostanza non sia riscontrabile, bisognerà procedere preventivamente alla modifica dello Statuto, per poi deliberare il suddetto aumento oppure deliberarlo all’unanimità o a maggioranza con il consenso “negoziale” dei soci che “ricevono di più” e di quello che “ricevono in meno.”

Esaminata la possibilità di assegnazione non proporzionale ai conferimento ed accedendo alla tesi positiva, si fa strada dunque la massima elaborata dal consiglio Notarile di Milano in tema di anti-diluizione del capitale sociale.

Specialmente in questo frangente, può esserci la necessità di introdurre “nuovo” capitale di rischio senza però diluire eccessivamente la partecipazione dei “vecchi” soci che hanno sottoscritto ad un prezzo diverso da quello a cui verrà offerta successivamente l’aumento di capitale sociale; prezzo magari inferiore perché volto ad incentivare il nuovo investitore a sottoscrivere l’aumento ed entrare in società.

Un esempio di tale esigenza è rappresentato dalla clausola che riconosce a un socio il diritto di non vedersi "diluito" nella propria partecipazione al capitale sociale qualora in futuro venissero deliberati aumenti di capitale a pagamento, anche se offerti in opzione, a un prezzo inferiore a una determinata soglia (c.d. "clausola antidiluizione”): la funzione di tale clausola è proprio quella di contemperare queste due contrapposte esigenze.

Tale clausola trova la sua legittimità nell’assegnazione non proporzionale delle azioni nella sua versione più estrema perché, i soci "protetti" sottoscrivono azioni o quote pur nulla conferendo. La massima, pertanto, accede alla interpretazione dottrinale (prevalente ma non pacifica) che, in relazione ai conferimenti non proporzionali, considera appunto legittime non solo le ipotesi in cui tutti i soci sottoscrittori di azioni o quote effettuino un qualche conferimento, sia pure non proporzionale, ma anche le ipotesi in cui vi siano alcuni soci che non effettuino conferimenti di alcun tipo.

L'individuazione dei soci "protetti" avrà luogo, nelle s.p.a., per il tramite di categorie speciali di azioni (potendo rappresentare l'unica, ovvero una delle, caratteristiche di categoria), e nelle s.r.l. per il tramite di categorie speciali di quote ai sensi dell'art. 26, comma 2, d.l. 179/2012 o per il tramite di diritti particolari ai sensi dell'art. 2468, comma 3, c.c.

Il patto di Famiglia: Deroga espressa ai patti successori

di Margherita Caccetta

Notaio

 L’istituto del patto di famiglia è disciplinato dall’articolo 768bis e seguenti del codice civile.

Esso consiste in una deroga ai patti successori, vietati nel nostro ordinamento per espressa previsione dell’articolo 458 del codice civile.

Tale deroga è consentita in ragione del particolare oggetto del patto di famiglia: l’azienda e le partecipazioni societarie.

Il nostro ordinamento, in vari articoli del codice civile, vede con favore la figura dell’imprenditore ammettendo deroghe ai generali principi che conformano il codice civile (si pensi al caso della proposta che se fatta dall’imprenditore nell’ esercizio dell’impresa sopravvive alla sua morte).

Il patto di famiglia dunque consente all’imprenditore di “anticipare” le sorti dell’azienda o del controllo azionario a favore di chi tra i suoi discendenti abbia una più spiccata capacità imprenditoriale.

A differenza del testamento, infatti, il patto di famiglia è efficace subito.

Non necessariamente l’imprenditore che stipula un patto di famiglia, deve farsi da parte subito. E’ ammessa anche la possibilità di un trasferimento parziale dell'azienda o delle partecipazioni societarie, che può essere utile per consentire un graduale passaggio delle consegne. Inoltre, il trasferimento può avere per oggetto la sola nuda proprietà dell'azienda o delle partecipazioni societarie, con riserva dell'usufrutto in capo al disponente. La riserva di usufrutto può essere importante perché consente al disponente di mantenere ancora nelle proprie mani il controllo sull'amministrazione dell'azienda o della società.

L'importanza del patto di famiglia sta proprio nel consentire un trasferimento immediato e definitivo, che non può più essere messo in discussione dai futuri eredi del disponente. In questo modo si possono assicurare le condizioni migliori per lo sviluppo dell'impresa. Al momento della morte del disponente, l'azienda o le partecipazioni societarie che sono state oggetto del patto di famiglia restano fuori dalla successione, che si aprirà solo sugli altri beni rimasti nel patrimonio

Analizziamo ad esempio, uno dei casi più classici ovvero l’ipotesi di trasferimento delle partecipazioni societarie di società di capitali. 

E’ previsto che l’imprenditore possa trasferire oltre che la piena proprietà delle stesse anche il diritto di usufrutto o la nuda proprietà.

Tuttavia, ai fini del trasferimento del controllo societario e per usufruire delle agevolazioni fiscali previste dal legislatore, è necessario che esso venga trasferito al beneficiario.

Il controllo in questo caso si esercita tramite il diritto di voto in assemblea e dunque, qualora venga trasferita al beneficiario la nuda proprietà, sarà necessaria una deroga alla previsione statutaria che di default prevede il diritto di voto in capo all’usufruttuario.

Qualora l’imprenditore voglia attribuire la partecipazione a più beneficiari suoi discendenti sarà necessario, ai fini del controllo, trasferirgliele in modo congiunto ovvero rendendo gli stessi comproprietari della partecipazione societaria nominando dunque un rappresentante comune degli stessi che vada concretamente in assemblea ad esprimere un voto unanime, come adesso andremo a vedere.

Le legge prevede inoltre che il beneficiario deve impegnarsi espressamente a proseguire nella gestione dell'azienda, o a mantenere il controllo della società, per almeno cinque anni dopo il trasferimento, a pena di decadenza dall'agevolazione. A tal fine il beneficiario deve rendere un'apposita dichiarazione nell'atto di donazione, ovvero allegata alla dichiarazione di successione. In caso di mancato rispetto dell'impegno assunto, sarà applicata l'imposta di donazione nella misura ordinaria (4%), ed eventualmente le imposte ipotecarie (2%) e catastali (1%) sugli immobili, oltre alla sanzione amministrativa pari al trenta per cento dell'importo non versato e agli interessi di mora.

Se si tratta di azioni o quote di Srl l'esenzione si applica solo alle partecipazioni che consentono al beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società attraverso la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria.

La necessità che, per godere dell'esenzione fiscale, il trasferimento di azioni o quote di s.r.l. abbia per oggetto una partecipazione che consente al beneficiario di acquisire o integrare il controllo della società, può creare qualche problema quando il beneficiario non è uno solo dei figli. Infatti, la ripartizione delle partecipazioni fra due o più discendenti impedirebbe a ciascuno di essi di acquisire, da solo, il controllo della società, e di conseguenza farebbe venire meno l'esenzione per tutti. L'Agenzia delle entrate ha mostrato di interpretare questa norma in modo restrittivo. L'unica possibilità per godere dell'esenzione è che il pacchetto di controllo della società sia intestato ai figli in modo indiviso, cioè essi diventino comproprietari dell'intera partecipazione di controllo, nominando poi un rappresentante comune nei confronti della società. Si tratta sicuramente di una complicazione, ma sembra essere l'unica soluzione per ottenere l'esenzione quando il trasferimento avviene a favore di più soggetti. La divisione delle quote o azioni potrà dunque avvenire solo dopo cinque anni dal trasferimento.

Il trasferimento a favore dei discendenti avviene dunque in esenzione dall'imposta, se ricorrono le condizioni sopra indicate.